martedì 3 febbraio 2015

Un mese dopo: Je suis encore Charlie




Non conoscevo Charlie Hebdo. Nonostante, come ho appreso in seguito, fosse una rivista molto nota non solo in Francia e con una storia importante, giorno 7 gennaio mi è apparsa come nuova. Un giornale che non conoscevo. Spero che la mia età possa servirmi da scusante. Prima dei vent'anni è difficile occuparsi di mondi ancora lontani.
 
ATTACCO A CHARLIE HEBDO. 11 MORTI A CHARLIE HEBDO. TERRORISTI ALLA SEDE DEL SETTIMANALE FRANCESE CHARLIE HEBDO. Informazioni come queste hanno cominciato a bombardarmi la mente senza che io sapessi bene di cosa si stava parlando.
Terroristi a Parigi? 11 morti? Cos'è Charlie Hebdo? Che sta succedendo?
 
Sono rimasta incollata al televisore tutto il giorno e il giorno seguente e quello dopo ancora. Quando l'informazione televisiva, soddisfatta del proprio lavoro di tre giorni di diretta ininterrotta e sicura della morte degli attentatori, ha lasciato sbiadire le ultime notizie riguardo al giornale, mi sono attaccata ad Internet e ho scavato più a fondo. L'importante era sapere cosa sarebbe successo da lì in poi.
Non sta a me, ultima arrivata, fare un excursus sulla storia di Charlie Hebdo. Ben numerose pagine ci vorrebbero e ben più esperti e affezionati di me.
 
Ciò che però mi ha subito colpito sono state le foto dei vignettisti e collaboratori uccisi. Non riuscivo a staccare gli occhi da quelle immagini. La dimensione umana del soggetto è la prima cosa che cerco di conoscere. Chi erano queste persone? Chi sono state? Non conoscevo bene nemmeno i loro nomi e anche leggendoli negli innumerevoli flash dei telegiornali, non sapevo collegare i nomi alle facce. Ma volevo sapere.

Mi ha colpito subito uno di loro: capelli scuri, occhiali e quasi sempre un sigaro in bocca. Un viso bello, tranquillo, appena sorridente. Ho pensato che non potesse avere più di 50 anni e mi sono chiesta se fosse sposato e avesse dei figli. Era Tignous, Bernard Verlhac, 58 anni, vignettista.
 
Il ragazzo col pugno alzato, che la maglietta a righe blu ringiovaniva ancora di più, mi ha fatto tenerezza per la leggera malinconia che mi sembrava di leggere nei suoi occhi, dietro quelle lenti così spesse. Me lo immaginavo da bambino, mingherlino, biondo e pallido, con degli occhialoni troppo grandi per la sua faccia. Buono, timido e gentile. Non sapevo fosse Charb, Stéphane Charbonnier, 47 anni, direttore di Charlie Hebdo.
 
Il signore con il caschetto alla Beatles mi ha fatto sorridere. Che viso simpatico! Doveva essere un gran mattacchione, eternamente giovane, tant'è che quando ho scoperto che aveva 77 anni non volevo crederci. Ho scoperto essere Cabu, Jean Cabut, vignettista e mito di Charb.
 
Essere uccisi ad 80 anni è una cosa talmente ridicola che non sembra possibile. Quel placido e bonario signore, evidentemente il più anziano di tutti, sembrava dire dalla sua foto "Ero troppo vecchio per morire". Era Wolinski, George Wolinski, vignettista.  
 
Sono state le prime foto ad essere diffuse da tutti i telegiornali nazionali, ma non erano che alcune delle vittime. Philippe Honoré, vignettista, non era ancora morto. Lo erano purtroppo Bernard Maris, economista e editorialista, Elsa Cayat, psichiatra,  Mustapha Ourrad, correttore editoriale, Michel Renaud, fondatore del festival Rendez-vous du Carnet de voyage, Frederic Boisseau, addetto alla manutenzione, Ahmed Merabet, agente di polizia in servizio, Franck Brinsolaro, ufficiale del servizio di protezione, guardia del corpo di Charb.
 
 
 
 
Le foto però continuavano a balzarmi davanti agli occhi. Dovevo conoscere di più.
Ho cominciato a cercare informazioni sulla storia del giornale, sulla storia dei suoi collaboratori, ho letto e visto interviste a colleghi, sopravvissuti, familiari. E' diventata come un'ossessione. Non riuscivo a capire perché una cosa del genere fosse successa e per capire dovevo conoscere.

Così ho scoperto come il giornale avesse subito un processo nel 2007 per insulti alla comunità musulmana, dopo aver pubblicato, uno dei pochi giornali in Francia, le vignette danesi dello Jyllands-Posten che ritraevano Maometto. La causa, vinta dal settimanale, è raccontata nel film documentario "C'est dur d'etre aime par des cons" di Daniel Leconte, che prese spunto per il titolo da una famosa vignetta di Cabu in copertina ad uno dei più contestati numeri della rivista. L'ho guardato in francese, ringraziando le mie basi scolastiche, per saperne di più. 
Ho scoperto che nel 2011 la sede di Charlie Hebdo era stata incendiata da due bombe Molotov a seguito del titolo, Charia Hebdo, e della copertina, disegnata da Luz, che ritraeva Maometto e le parole "100 frustate se non muori dalle risate". Ho scoperto che nel 2012, Charlie Hebdo aveva iniziato una pubblicazione speciale intitolata "La vie de Mahomet", a seguito della quale Charb ricevette minacce di morte su un sito jihadista.  
E poi il 7 gennaio 2015.
 
 
 
 
Più leggevo, più non capivo i perché. I perché, più d'uno.
Perché un giornale satirico non dovrebbe fare satira su ogni cosa?
Perché la satira religiosa è accusata di vilipendio?
Perché non si può disegnare un profeta che è stato uomo prima di tutto?
Perché ad una sedicente offesa alla propria fede si risponde con un massacro?
Perché, se un argomento, un giornale, una vignetta non sono di gradimento, non limitarsi ad ignorarle, piuttosto che scagliarvisi contro in maniera violenta?
Perché uccidere delle persone in nome di un dio?
Perché accettare la libertà di stampa, d'espressione e di satira è per qualcuno così inaccettabile?
 
Non c'è nessuna giustificazione per quello che è successo. Non c'è nessuna possibilità di dire "ma". Viva la satira, ma. Non si uccide, ma. Si può disegnare chiunque, ma. Il "ma" cancella ogni buona intenzione.
Ho sentito commenti aberranti riguardo a ciò che è successo. Ho sentito una professoressa di religione paragonare la gravità della morte dei vignettisti alla gravità delle offese recate dalle vignette alla fede islamica (e non solo quella).
Ho sentito dire "se la sono cercata". Ho sentito dire "la satira deve avere limiti". Ho sentito dire cose che non avrei voluto sentir dire.
 
Non da subito, sia chiaro. Subito dopo l'attentato, l'emotività del momento ha spinto tutti a schierarsi dalla parte dei più deboli, delle vittime e dei sopravvissuti. La morte fa sempre pena. Tutti a esecrare quanto accaduto, a voler dire basta alla violenza e viva alla libertà di stampa. Gli ipocriti hanno indossato una bella maschera di dolore per far parte anche loro della scena. Tutti a dire Je suis Charlie, a piangere lacrime di coccodrillo, a solidarizzare.
Laddove la solidarietà è sincera, mille e mille volte si dovranno vedere le sue manifestazioni. Chi credeva veramente in quello che diceva, doveva solidarizzare. Tutti gli altri no, non ne avevano il diritto. "C'est dur d'etre aimé par des cons", è dura essere amati da dei coglioni. Io aggiungerei che è dura anche essere odiati e uccisi da dei coglioni. E che, in fondo, è dura anche esserlo, dei coglioni.
 
Io non conoscevo Charlie Hebdo. L'ho conosciuto in un brutto momento, ma ciò che mi ha lasciato è indelebile. Mi ha cambiata, ha rivoluzionato il mio modo di pensare. Mi ha fatto capire quanto sia importante avere delle idee ferme e chiare su certe questioni.
Ho visto tutte le vignette che sono riuscita a trovare su Internet e non sono stata offesa da nessuna. Alcune ci ho messo un po' a capirle, ma bisogna anche considerare la lingua diversa e il senso dell'umorismo diverso, da paese a paese. Ma non sono stata offesa. Anzi, ho riso. Ho riso anche vedendo derisa la trinità, Gesù, la Madonna. Non sono rimasta turbata né sono stata fulminata all'istante dalle saette di Giove.
L'unico pensiero era quanto fossero irriverenti e caustici Charb, Cabu, Wolinski, Tignous, Honoré e quanto fosse giusto che lo fossero. Guardando quelle vignette, ho capito quanto sia importante difendere le proprie idee. Laicità, satira, sberleffo, ironia, irriverenza. Sono tratti umani presenti nella nostra letteratura da secoli e sempre soppressi e ostacolati. Per questo è importante riportarli in auge. Sono la parte più genuina del nostro pensiero, perché sono veri, vivi, potenti nella nostra mente.

Accusato di irresponsabilità, Charlie Hebdo era uscito con un numero che campeggiava in copertina "JOURNAL RESPONSABLE". Contenuto: due titoli. Tutte le vignette in bianco. Come a dire che se non si osa a fare quello in cui si crede, non rimane nulla da mostrare. Non serve a niente essere responsabili se ciò vuol dire non pensare con la propria testa.
 
Io credo nella satira, nella laicità, nella libertà di espressione, nell'irriverenza verso tutti i poteri superiori, nell'ironia, nella presa in giro.
Je suis encore Charlie, et je serai Charlie toujours.
 
 
 
 
 
Allego qui alcuni video che mi hanno aiutato a conoscere meglio questa storia...e che mi hanno molto commosso.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 


 

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